La sera del 2 agosto 1947 una cantante sconosciuta calcava
le scene dell'Arena di Verona nei panni di Gioconda. il nome della
ventiquattrenne debuttante, Maria Callas, non diceva nulla al pubblico e furono
pochi, in quell'occasione, ad accorgersi del nuovo astro apparso nel firmamento
della lirica. Anche la critica si limitò ad assegnarle un buon successo, ma
niente dl più. Oggi, a trent'anni di distanza, spentisi i riflettori sulla
«Divina», dileguatesi le schiere dei feroci nemici ed assopitisi (ma non del
tutto) i sacri furoci dei «fanatici», a pochi giorni dalla sua morte, possiamo
trarre qualche conclusione sul fenomeno Callas, considerato nel suo complesso,
perché è proprio del fenomeno il non lasciarsi frantumare, pena il decadimento
d'ogni interesse. Si è fin troppo parlato delle due schiere opposte di cultori
e denigratori della Callas, o di certi leoni della critica accortisi troppo
tardi della sua grandezza. La verità è che non sarebbe potuto accadere
diversamente. La Callas,
proprio come «fenomeno del secolo», non sopportava accettazioni parziali o
riconoscimenti tiepidi: la si doveva ammirare o respingere in blocco. E qui
bisogna precisare che la Callas
comparve sulle scene in un periodo particolarmente viziato della Lirica, dopo
alcuni decenni di malcostume vocale e di totale assenza di autentico «belcanto»
(storicamente inteso): la
Callas si trovò sola a combattere contro direttori incapaci
di differenziare stilisticamente Lucia e
Pagliacci, contro colleghi avvezzi a vociferare secondo il dettame
verista, contro tradizioni sceniche che avevano ridotto il cantante d'opera ad
un fantoccio stereotipato. Non c'e da stupirsi che lo spettatore ed il critico
(da non confondere con lo storico) tardassero a riconoscere la grandezza unica
della Callas, limitandosi magari a fare sciocchi confronti tra i suoni «brutti»
della Maria e quelli «angelici» della Tebaldi, creando una rivalità adatta più
al pettegolezzo giornalistico che alla serietà dell'esegesi vocale. Ed è logico
che la critica non cogliesse, negli anni Cinquanta, il fenomeno. Siamo
addirittura tentati di ritenere che i critici più avveduti facessero parte
della cieca partigianeria callasiana, altrimenti non avrebbero osannato,
insieme alla vocalità della «Divina», gli urli di un Di Stefano, certi suoni
beceri di Gobbi o di Bechi, il vociferare di Del Monaco, le improprietà
stilistiche dei direttori più in voga; come pure siamo portati a giustificare i
tardivi riconoscimenti dei critici più seri, abituati a frantumare, ad
analizzare nei particolari ogni esecuzione, perché la Callas, colta in una
prospettiva convergente, non sempre supera l'esame al microscopio, non accetta
facilmente d'essere frantumata, analizzata, sezionata. La sua grandezza è stata
quella di accentrare in sé i pregi e i difetti delle precedenti ere vocali,
assoggettando il proprio estesissimo organo ai ruoli più disparati, da quelli
scritti per contralto acuto rossiniano alle parti per soprano coloratura,
cancellando le classificazioni di soprano leggero, lirico e drammatico per
creare la «cantante» in senso assoluto, l’«interprete» non meno attenta alla
presenza scenica che al puro fatto vocale, sia che impersonasse un'eroina
angelicata del primo Ottocento, sia che delineasse, con tratti sanguigni, un
personaggio verista. E' stato abbastanza facile ai critici, in tempi recenti,
capovolgere il binocolo per giudicare, con l'occhio dello storico, la portata
del fenomeno callasiano. Ci si è allora accorti che senza la Maria non sarebbe
probabilmente rifiorito, soprattutto in campo femminile, il «belcanto»; si è
capito che la riesumazione di tanti capolavori - di cui la nostra epoca si
vanta - ha trovato nella Callas la prima sostenitrice e divulgatrice. Opere
come Medea, Vestale, Pirata, Armida, Anna Bolena, Ifigenia in Tauride, Macbeth,
devono al suo «imprimatur» una seconda giovinezza. Senza le interpretazioni
della Callas questi capolavori sarebbero probabilmente rimasti ad ammuffire
negli scaffali e noi non registreremmo il revival belcantistico delle varie
Sutherland, Caballé, Horne, Sills, Gencer, Verrett. Solo attraverso un'analisi
retrospettiva si riesce dunque a cogliere l'importanza storica della Callas e
la sua posizione di caposcuola, cancellando con un colpo di spugna i
pettegolezzi, le cattiverie, i devianti fanatismi, gli scandali che ne hanno
adombrato la prestigiosa carriera. Oggi questo personaggio fondamentale per il
mondo del teatro e della musica non c'e più. La Callas è morta il 16
settembre di quest’anno nel suo appartamento di Parigi per un attacco cardiaco.
Aveva 54 anni, un'età non certo avanzata, per chi conduce una vita normale. Ma
la sua non è stata di certo tale: nella vita e sulla scena, la Callas non ha mai
risparmiato le energie e l'impegno. I risultati sono ben noti, ma certe cose
prima o poi si pagano. Ora ci restano di lei le incisioni discografiche (quelle
stupende e quelle meno belle: tutte importanti), le fotografie che registrano
le sue tipiche, intensissime espressioni di cantante-attrice, la superba
interpretazione del film «Medea» di Pasolini. Non è molto, se lo si paragona
alla grandezza della sua arte. Ma basterà di certo a non farla dimenticare.
[Bruno Baudissone]
sabato 10 agosto 2013
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