martedì 12 agosto 2014

Michel Glotz: Maria Callas e Herbert von Karajan


Il 17 febbraio del 2010 a 79 anni di età è morto a Parigi Michel Glotz, produttore discografico tra i più importanti della storia musicale. Classe 1931, durante l´occupazione nazista in Francia dovette nascondersi a causa delle origini ebree e per questo motivo interruppe gli studi musicali. A guerra finita dopo l´università,  entrò alla sezione classica della EMI, ed ebbe l´opportunità di lavorare con il direttore inglese Sir Thomas Beecham.
Avvenne poi l'incontro con Maria Callas che gli chiese di collaborare come assistente di Walter Legge. Fu così che nel 1965 iniziò una stretta collaborazione anche con Herbert von Karajan, del quale divenne responsabile esclusivo per le registrazioni. Glotz ottenne numerosi premi e riconoscimenti, tra cui un Grammy nel 1977 per il ciclo delle 9 Sinfonie di Beethoven. In questa intervista pubblicata nel 2007 sul "Musica", il produttore racconta la carriera e in maniera diffusa fa riferimento al ruolo di produttore discografico.

Nell'arco degli ultimi cent'anni il disco ha condizionato sempre di più la vita musicale, dall'atto creativo alle scelte interpretative, dallo studio musicologico all'ascolto più casuale. E a far sì che una semplice documentazione sonora diventasse strumento musicale e modello estetico a tutti gli effetti sono stati soprattutto i record producers. Pionieri coraggiosi come Fred Gaisberg, visionari dispotici come Walter Legge e collaboratori esperti che si mettono al servizio dell'interprete come Michel Glotz, il quale firmò le ultime incisioni autorizzate di due mostri sacri come Maria Callas e Herbert von Karajan.

«Sarà un viaggio agitato, ma mai noioso»: così disse Herbert von Karajan a Michel Glotz durante una cena Newyorchese del 1965 che cambiò la vita di entrambi. Al produttore discografico francese, fino a quel momento dipendente della EMI e noto soprattutto come stretto collaboratore di Maria Callas, veniva offerta la possibilità di coordinare gran parte delle attività artistiche – tra incisioni, film, festival e tournée del maestro austriaco, senza rinunciare a quell'agenzia musicale parigina, Musicaglotz, che stava per fondare e che ormai è attiva da oltre quarant'anni.
E' stato protagonista o soprattutto un testimone d'eccezione, il signore parigino dai tratti dolcemente malinconici che mi accoglie nel suo ufficio a due passi dal Jardin du Luxembourg? Entrambe le cose, sicuramente. I suoi scritti autobiografici (l'ultimo volume, pubblicato da JC Lattès a Parigi nel 2002, è intitolato La note bleue) ci offrono squarci rivelatori «dietro le quinte» di cinquant'anni di vita musicale ai più alti livelli. Fu Glotz ad accompagnare la Callas al pianoforte in concerti privati sul panfilo Cristina, ad assistere a «jam sessions di musica da camera tra Heifetz, Piatigorski e Weissenberg» negli stessi anni sessanta, a seguire da vicino i rapporti tra Karajan e i Berliner Philharmoniker nei momenti esaltanti come in quelli di crisi. E fu lo stesso Glotz a firmare come record producer non solo buona parte delle incisioni di Karajan a partire dal 1968, ma anche gli ultimi dischi di Carlo Maria Giulini, una fetta sostanziosa della produzione discografica dell' amico di sempre Alexis Weissenberg, alcune opere verdiane incise da James Levine nei primi anni novanta (cito, tra gli esiti più alti, Luisa Miller e Don Carlo) e le opere russe realizzate in Bulgaria da un talento intrigante stroncato dall' Aids, Emil Tchakarov. A differenza dei suoi predecessori Walter Legge (EMI) e John Culshaw (Decca), Glotz ricorda con sincero affetto molti degli artisti con cui ha lavorato e non cercò mai, in sala d'incisione, di imporre una propria visione estetica che andasse al di là di un indubbio culto del bel suono. Ma nonostante il carattere amabile, il suo legame prolungato con il più potente maestro del secondo Novecento gli ha attirato non poche critiche sul piano professionale, talvolta «per errori che in realtà erano di Karajan o dell'equipe tecnica», come precisa l'autorevole biografo del direttore, Richard Osborne, che sottolinea pure l'affidabilità e la coerenza dei ricordi di Glotz. Del resto nessuno ha definito meglio dell'amico e «factotum» parigino l'essenza dell'uomo Karajan, a metà «tra un bambino e un vecchio saggio cinese».
Per un professionista di tale esperienza, una certa nostalgia è inevitabile («a Berlino Karajan non è mai stato sostituito»), ma nel corso della nostra conversazione (troppo lunga per essere riportata integralmente) l' attenzione di Glotz si sposta volentieri dal passato al presente, per comunicare tutta la sua ammirazione per certi artisti con cui collabora tuttora. Ne La note bleue viene dedicato un intero capitolo al grande basso italiano Ferruccio Furlanetto, e simili peana sono rivolti al Trio Wanderer e al violoncellista francese Xavier Phillips: entusiasmi di oggi che reggono benissimo i confronti con l´ingombrante passato.
Come nasce in Lei l'amore per i dischi?
I primi ascolti che ricordo risalgono all'età di quattro anni. I miei genitori avevano un'ottima collezione di 78 giri e presto divenni anch'io collezionista. Loro scoprirono in seguito che il modo migliore per potermi incoraggiare negli studi per il baccalauréat era darmi soldi con cui comperare dischi. Mi piacevano tanti generi e le mie orecchie erano particolarmente sensibile alla melodia. Quand'ero bambino odiavo la Sagra della primavera: per fortuna si cambia con la maturazione e negli anni a venire avrei inciso il capolavoro di Stravinski diverse volte.
Nel secondo dopoguerra Lei frequentò assiduamente i corsi pianistici di Marguerite Long. Ha mai rimpianto il fatto dí non essere diventato concertista?
In realtà no. Fu la guerra ad impedirmelo, negli anni formativi per le dita, per la mente, per quella disciplina quotidiana che è indispensabile al solista. Ma quell'educazione musicale che comunque ho avuto è stata la preparazione ideale per ciò che ho fatto nella mia vita. Seguivo i corsi della Long a Parigi come uditore. Mi dedicavo anche agli studi letterari allora e avevo già rinunciato all'idea di diventare concertista. Talvolta però accompagnavo gli allievi sul secondo pianoforte quando si trattava di studiare i Concerti con orchestra, e col tempo divenni un amico stretto della Long. Appresi moltissimo da lei sulla musica in generale e in particolare sulle composizioni di Debussy, Fauré, Ravel, Albéniz, Granados e De Falla, con i quali era stata in rapporti amichevoli. Si aveva veramente l'impressione con lei di poter raccogliere i frutti di una grande tradizione musicale. Fu attraverso la Long poi che conobbi personaggi come Poulenc e Milhaud e Georges Auric.
Naturalmente conobbe anche il violinista Jacques Thibaud, l'altro fondatore dell'Ecole Long-Thibaud…
Sì, e nell'ultima estate della sua vita – era il 1953 – trascorsi le vacanze con lui e sua moglie nella sua casa a Saint-Pée-sur-Nivelle, vicino a Saint-Jean-de-Luz. Poco dopo egli partì per quel viaggio in Oriente – doveva andare prima a Saigon, per suonare per le truppe francesi, e poi fare una tournée in Giappone – che gli sarebbe stato fatale. Morì in un incidente aereo orribile, e con lui furono distrutti i due violini che portava con sé. Uno Stradivari e un Vuillaume, che era meno vulnerabile dello strumento italiano ai cambiamenti di clima. Thibaud aveva un carattere molto diverso da quello della Long: estroverso e spontaneo, tipicamente meridionale. E il suo modo di suonare rispecchiava il carattere dell'uomo: un bon vivant, pieno di charme e fantasia, gentile e generoso.
Come si diventa un produttore discografico?
Ho avuto un ottimo apprendistato, assistendo alle sedute di registrazione di diversi amici musicisti: specialmente quei pianisti – come Aldo Ciccolini e Philippe Entremont – che entrarono in carriera dopo aver seguito i corsi della Long, ma anche direttori come André Cluytens. Trascorrendo tante ore in sala d'incisione mi resi conto che il lavoro di record producer era quello più adatto a me. Ero capace di distinguere una ripresa ottima da una semplicemente buona e ero convinto di poter creare un clima di entusiasmo che avrebbe aiutato i musicisti psicologicamente. Ero disposto nello stesso tempo a dire loro la verità. Si tratta di una regola inderogabile in questa professione. Se dici delle bugie a un interprete lo rimpiangerei per il resto della vita e perderai la fiducia dello stesso artista. Perché quando il disco uscirà lui si renderà perfettamente conto che l'incisione che avevi descritta come ottima in realtà è mediocre. Questa regola valeva pure per Karajan, anche se non sempre era facile essere franchi in determinate situazioni. Durante l'incisione la partitura diventa veramente la bibbia del produttore. In quel momento non vedi nessuno quando iniziavo negli anni cinquanta non c'era una vetrata che ti permetteva di osservare chi incideva e devi dimenticare qualunque sentimento di affetto o di ammirazione nei confronti degli artisti. Il suono giunge attraverso le casse e devi semplicemente giudicarlo in base a quanto è scritto dal compositore. Se occorre correggere qualcosa bisogna farlo senza compromettere l'atmosfera di amicizia rilassata. Se si avverte però qualche difetto nella resa sonora, si deve intervenire subito: altrimenti l'orecchio si abituerà all'elemento di fastidio e ci si renderà conto della gravità dell'errore soltanto dopo l'uscita del disco.
Le Sue prime incisioni furono realizzata alla Salle Wagram a Parigi? Come si trovava lì?
Era, ed è, una sala eccezionale. Usata normalmente per gli incontri di pugilato, è relativamente silenziosa e ha un'acustica eccellente grazie al rivestimento in legno. Questa sala fu amata da tanti artisti, tra cui Beecham, che vi incise la sua Carmen nel 1959 con l'Orchestre National de France.
Cosa ricorda di quelle sedute d'incisione?
Posso raccontare un aneddoto curioso. Un giorno si doveva provare le arie di Carmen alle dieci del mattino e Victoria de los Angeles era un po' in ritardo. Alle dieci in punto Beecham si rivolge a me dicendo: «Il tuo soprano spagnolo non è arrivato» e poi insiste perché io la sostituisca. Così mi trovo a cantare in falsetto praticamente tutta la parte del mezzosoprano! Si trattava soltanto di una prova, ma Paul Levasseur, l'ingegnere del suono, registrò tutto, compresi i commenti di Beecham che approvò la mia interpretazione della «Seguidille» ma mi chiese di ripetere una parte del duetto con Don José per un errore di solfeggio! L'orchestra naturalmente si sbellicava dalle risa.
In Inghilterra Beecham è considerato un grande interprete della musica francese: questo parere è condiviso in Francia?
Assolutamente sì. Nell'opera francese colpiva per la fantasia e la sensibilità del fraseggio, per la bellezza delle sonorità. Ed era senza rivali per esempio nella Sinfonia in Do di Bizet. Mi ricordo che insistetti tante volte con Karajan perché incidesse quella sinfonia, ma lui rispondeva sempre: «Il disco di Beecham è così bello che non posso superarlo».
Negli ultimi anni cinquanta arrivai a conoscere Beecham molto bene. Negli ultimi giorni della sua vita mi chiese di diventare direttore musicale di un Festival Berlioz che lui voleva organizzare a Londra con la Royal Philharmonic Orchestra. Andai a trovarlo alla sua casa di campagna in Inghilterra per pianificare il lavoro, ma lui era ormai molto stanco. A un certo punto tornai a Parigi e mi telefonarono la mattina dopo per dirmi che era morto durante la notte. Volai subito di nuovo in Inghilterra per il funerale, dove Lady Beecham – che vive ancora oggi – insistette perché salissi in macchina con lei e con il figlio per accompagnare Sir Thomas al luogo di sepoltura, nella bellissima campagna inglese.
Quella di Beecham fu solo la prima di molte incisioni di Carmen realizzate de Lei.
In effetti l' opera di Bizet è diventata una mia specialità. Dopo quella di Beecham, in cui affiancavo il produttore discografico Victor Olof, ebbi piena responsabilità per l'incisione con Maria Callas diretta da Georges Prétre, per le colonne sonore del film di Karajan con Grace Bumbry e di quello con Julia Migenes e regia di Rosi e per l'ultima incisione in studio di Karajan con Agnes Baltsa.
Preferisce i recitativi cantati oppure i parlati della versione originale?
Trovo che i recitativi di Guiraud si sposano benissimo con la musica di Bizet. I dialoghi originali mi piacciono solo quando gli artisti hanno una vera padronanza del francese.
Personalmente – per limitarci alla protagonista – li ho sentiti dire bene soltanto da Regine Créspin, in una recita dal vivo dal Met.
In effetti la Crespin è stata una delle cantanti che ha saputo pronunciare il francese con la massima chiarezza. Un esempio di dizione anche tra gli interpreti di madre lingua francese. Basta sentire l' incisione dei Dialogues des Carmélites che realizzammo insieme nel 1958: una pronuncia assolutamente impeccabile. E' un peccato che non avesse un tipo di voce adatto alla parte di Mélisande, perché sarebbe stata una rivelazione sentirla in quella musica. Dopo il mio arrivo alla EMi nel 1957 ebbi diverse occasioni di lavorare con lei. Ricordo una selezione della Tosca in lingua francese diretta da Pretre. Fui io a presentarla poi a Rudolf Bing, il quale le offrì un contratto per il Metropolitan, e grazie al mio amico André Cluytens fu presentata a Wieland Wagner, che la scritturò per diverse opere a Bayreuth. Devo dire che anche l' idea di Karajan di scritturarla per Brünnhilde al Festival di Pasqua di Salisburgo nel 1967 ebbe origine da un mio suggerimento.
Incuriosisce il fatto che si incideva ancora una Tosca in francese nel 1960.
Negli anni cinquanta la vita musicale francese era ancora molto provinciale. Al punto che quando Maria Callas debuttò all' Opéra nel 1958 le sue incisioni non venivano praticamente distribuite dalla Pathé-Marconi in Francia perché erano in lingua originale. Devo dire che odiavo questa tradizione di eseguire le opere in traduzione; una tradizione ancora viva allora anche in Italia e in molti altri paesi europei. Quando per esempio Karajan diresse Carmen alla Scala nel 1955 con la Simionato e Di Stefano, venne avvicinato da Toscanini che era alquanto contrariato dall'idea che il direttore austriaco volesse imporre quell'opera in lingua originale nel teatro milanese. Se avesse però sentito un Falstaff in francese, credo che si sarebbe indignato…
Prima ha parlato dei Dialogues des Carmélites di Poulenc, un compositore che ha conosciuto molto bene negli ultimi anni di vita.
Le case discografiche erano felicissimi di incidere la musica di Poulenc perché i suoi dischi vendevano: in un solo anno furono acquistati – e soltanto negli Stati Uniti – centocinquantamila copie dell'incisione del Concerto per organo con Maurice Duruflé, sotto la direzione di Prétre. Era uno dei pochi compositori del Novecento che abbia goduto di un' autentica popolarità quando era ancora in vita. Lui stesso era entusiasta dei progetti discografici, ma preferiva non assistere alle sedute di registrazione. Quando abbiamo inciso il Concerto per organo in una chiesa a meno di un chilometro di distanza dalla casa del compositore, mi disse: «Io ho detto tutto quello che avevo da dire attraverso la musica e voi l' avete capito. Amo Georges Prétre. Lasciate che il disco mi giunga come un dono, una sorpresa. Stupitemi!». Ricordo soltanto due eccezioni a questa regola. Gli chiesi di venire alla Salle Wagram durante l'incisione di Gloria per offrire il suo appoggio morale al soprano Rosanna Carteri che era angosciata per una frase ostica per l' intonazione sul passaggio di registro. E la presenza del compositore la aiutò a superare il problema in modo superbo. L' altro esempio riguarda l'incisione della Voix Humaine con Denise Duval, che non fu prodotta da me ma che venne acquisita dalla EMI in un secondo momento. In quel caso fu lo stesso Poulenc a voler essere presente per assicurarsi che le pause di silenzio – così cruciali in quest'opera – fossero sufficientemente lunghe.
Nello stesso periodo Lei divenne amico di Maria Callas.
Avevo già visto la Callas in una Turandot al San Carlo di Napoli e poi in una Traviata alla Scala che lasciò l' uditorio in stato di choc. Ma cominciai a conoscerla bene nel 1957, quando fece scalo a Parigi durante un viaggio dall'Italia agli Stati Uniti e diventammo amici stretti – sentendoci spesso ogni giorno per telefono – a partire dal 1958, quando collaborai all' organizzazione della grande serata di beneficenza all'Opéra che segnò il debutto del soprano a Parigi. Una serata di tre ore che fu trasmessa in Eurovisione, e che ebbe un impatto tale che per la durata del programma si verificò una notevole diminuzione del traffico automobilistico in tutta Europa. La Callas conquistò in quell' occasione l'amore della città di Parigi e della Francia intera. Quel concerto segnò una svolta nella sua carriera e Parigi sarebbe diventata in seguito la sua città. Aveva una personalità fortissima, ma nello stesso tempo si adattava benissimo ai luoghi più diversi. Parlava un ottimo francese, con intonazioni dolci e gravi che rispecchiavano gli armonici bellissimi della voce cantata.
La Sua prima collaborazione discografica con la Callas riguardava i due album intitolati «Callas à Paris». Il produttore Ufficiale tuttavia fu Walter Legge…
Legge aveva la responsabilità globale per le incisioni, ma lui andava avanti e dietro tra Parigi e Londra lasciando il grosso del lavoro a me. Siccome però lui era Walter Legge ed io non ero nessuno, il suo nome figura come recording producer. A questo proposito la Callas mi disse: «Sarebbe una battaglia perduta in partenza tentare di ottenere un pieno riconoscimento del tuo ruolo, ma voglio almeno che sulla copertina dei dischi ci sia un articolo scritto e firmato da te»: e così si fece. La Callas ebbe in quel periodo dei dissapori con Legge a causa di un'edizione del Requiem di Verdi promessa prima a lei e poi affidata – per quanto riguarda la parte sopranile – alla moglie Elisabeth Schwarzkopf. Si era un po' stufata del suo modo di fare, così come si era stufato Karajan, che era stato aiutato moltissimo da Legge nel primo dopoguerra ma in seguito si sentì sfruttato da lui dal punto di vista contrattuale. Ora che la Schwarzkopf non c'è più posso dire che Walter Legge fu un maestro per tutti noi ma anche uomo sgradevole: e dire sgradevole è un understatement. Era una specie di genio per quanto riguardava la conoscenza della musica, la qualità del suono che otteneva e i suggerimenti che era capace di dare agli interpreti (con la Schwarzkopf agì da vero Pigmalione), ma aveva anche molti pregiudizi e nel dire la verità agli artisti spesso oltrepassava i confini della maleducazione, dicendo le cose in maniera brutale e facendosi di conseguenza molti nemici. Tuttavia tra i produttori discografici solo Jack Pfeiffer della RCA poteva avvicinarlo per conoscenza della musica (non posso parlare però di John Culshaw perché non l'ho conosciuto a sufficienza per poterlo confrontare con Legge). Per anni, durante le mie trasferte londinesi, osservai Legge al lavoro negli studi di Abbey Road, assimilando come una spugna tutto quello che aveva da insegnare. Non l' ho mai imitato però nella rudezza di carattere, anche perché ero troppo giovane per impormi in quella maniera: lui era abrasivo e severo, io invece avevo un atteggiamento dolce ed amichevole nei confronti degli artisti.
Nei due album «Callas à Paris» si spazia dal repertorio per contralto a quello per soprano leggero: come vennero scelte le arie da incidere?
Molte delle arie erano già state studiate dalla Callas con Elvira de Hidalgo in Grecia. C'era un pianoforte all' Hotel Lancaster a Parigi dove il soprano alloggiava allora e ci incontravamo lì con il direttore Georges Pretre per decidere cosa inserire nel disco. La Callas poi ripassò il tutto con Janine Reiss, con la quale nacque un' intesa artistica specialissima. L' unico pezzo che non pubblicammo subito fu «Mon choeur s' ouvre à ta voix» da Samson et Dalila: ed è l' unica incisione la cui pubblicazione venne approvata da me dopo la morte di Maria. Prima di dare la mia approvazione l' ascoltai tante volte e mi sembrava veramente eccezionale: toccante come interpretazione, bellissima come linea. Sapevo bene naturalmente perché l' aveva bloccata: la melodia scendeva nel registro più grave della sua voce ed era stata costretta a una ripresa di fiato che lei riteneva fosse troppo lunga. Quando decidemmo di pubblicare l' aria tentai di accorciarla in sede di editing, ma si avvertiva troppo l' intervento tecnico e alla fine abbiamo lasciato l' esecuzione com' era. Mi opposi invece con forza alla pubblicazione del duetto dal terzo atto di Aida realizzato alla Salle Wagram nel 1964 con Franco Corelli. Quello che venne pubblicato, con l' autorizzazione non mia ma della sorella della Callas, Jackie, secondo me è un insulto alla memoria di Maria. Si tratta non di una registrazione definitiva ma di una semplice prova, durante la quale Corelli voleva a tutti a costi cantare a piena voce mentre la Callas si stava semplicemente scaldando. Poi, quando la prova era finita, Corelli si rifiutò di ricantare il duetto in voce perché diceva che l' aveva già fatto. Ci sono due cantanti con cui non sono mai riuscito a lavorare felicemente. Uno era Boris Christoff, a causa del suo carattere difficile (ma riconosco la grandezza dell'interprete). L' altro era Franco Corelli, a causa delle interferenze della moglie e di certi comportamenti stupidi. In quell'occasione Maria era arrabbiatissima con lui e mi disse: «Vai a trovare Franco. Digli che lo ammiro molto, che amo la sua voce, ma che non posso lavorare in queste condizioni».
Capitava alla Callas di innervosirsi a causa dei suoi problemi vocali?
Era quasi sempre tranquilla in sala d'incisione. Se la voce non rispondeva mi diceva: «Oggi non sono in forma. Cercherò di fare meglio, ma se non riesco lo ripeterò domani». Sapeva di poter lavorare con tranquillità perché i suoi dischi vendevano così bene che la EMI poteva ben permettersi di dedicarvi diverse sedute. La Callas non arrivò mai in ritardo per le incisioni, ma a volte stava in crociera con Aristotele Onassis sulla nave Christina fino a pochi giorni prima dell'inizio del lavoro e non aveva trovato il tempo per mettere le arie totalmente in voce. In quei casi veniva chiamata Elvira de Hidalgo da Milano. Era spesso presente alle incisioni di Maria fino alle ultime sedute gestite da me nel 1965. E bastava un' ora al pianoforte per trasformare la voce della Callas. Frasi che erano sembrate tecnicamente ostiche improvvisamente diventavano facili.
Spesso si dice che Onassis non apprezzava l'arte della Callas.
Io non ho mai detto cose del genere. In realtà Onassis amava il belcanto come amava Chopin. C'era un pianoforte sul Christina e quando ero ospite sulla nave suonavo i Notturni di Chopin per lui e accompagnavo Maria in arie di Bellini. Ma ho sentito la Callas cantare, come nessun altro al mondo, anche le tradizionali canzoni greche accompagnate dal bouzouki. Le ho chiesto di inciderle, ma lei non amava l' idea di fare un disco che potesse sembrare un tentativo di utilizzare il suo nome per fini puramente commerciali. Amava però quella musica e guardava con assoluto rispetto e umiltà agli interpreti di musica «leggera», come Melina Mercouri. Era in grado di impadronirsi di qualsiasi musica. L' ho sentita cantare il jazz da vera americana e interpretare meravigliosamente le mélodíes di Duparc. Registrò infatti la versione con orchestra dell'«Invitation au voyage» per la trasmissione televisiva «Les Grandes Interprètes» nel 1965, ma non c'era spazio per inserirla nel programma e in seguito il filmato sparì. Io ero presente durante la registrazione e fu un' interpretazione fantastica, ma lei rifiutò sempre le mie proposte di realizzare un disco dedicato a Duparc: diceva che non avrebbe mai potuto rivaleggiare con le migliori cantanti francesi.
La Callas cantò Norma per l'ultima volta all' Opéra di Parigi negli anni 1964-65, talvolta in precarie condizioni di salute e di voce. Ha un ricordo felice di quelle recite?
Assolutamente sì. Nonostante tutto, ebbe dei trionfi indescrivibili. Vorrei ricordare poi un episodio significativo riguardante il sindacato degli orchestrali, che allora come oggi era molto forte. Una mattina la Callas stava provando Norma all' Opéra con Prétre sul podio: c'era un' atmosfera particolarmente bella e armoniosa. Maria non si rendeva conto del passare del tempo e la prova – che avrebbe dovuto concludersi alle tredici – proseguì per altri sedici minuti. A un certo punto lei interruppe il lavoro perché voleva correggere qualcosa e Prétre le disse che purtroppo dovevano fermarsi perché la prova era finita. Neanche uno dei professori d'orchestra si era fermato, tuttavia. Lei si scusò con l'orchestra, ma io decisi di raccontare comunque quest' episodio a Georges Auric, direttore dell' Opéra, perché sapevo che i sindacati avrebbero potuto creare qualche problema. Ma quando lui telefonò ai rappresentanti sindacali, loro dissero: «No, non vogliamo dei soldi in più per quei sedici minuti perché si tratta di Madame Callas». Ciò fa capire la felicità che era in grado di trasmettere al mondo intero.
Un altro artista con cui ha avuto un sodalizio stretto, e per un periodo ancora più lungo, è Herbert von Karajan.
Conobbi Karajan già nel 1957 e dopo che avevo lasciato la EMi alla fine del 1965 per creare un ufficio di rappresentanza per artisti, divenni il suo collaboratore e factotum, con un ruolo molto attivo nella progettazione del Festival di Pasqua a Salisburgo, che si inaugurò nel 1967 con l' inizio di un Ring in cui si proponeva un approccio nuovo e diverso al canto wagneriano. In quel periodo lui aveva un contratto discografico esclusivo con la DG, firmato dopo la rottura con Legge. Ma quando quel contratto terminò, riuscii a convincerlo a non confermare quel rapporto di esclusività e a riprendere i rapporti con la EMI. Dal 1968 fino alla sua morte nel 1989 sono stato poi il produttore discografico di Karajan, collaborando non solo con la EMI ma anche con DG, mentre le incisioni Decca erano gestite da altri. Lui mi cercò anche nell'ultimo giorno della sua vita. Mi chiamò alle 11.30 di quel 16 luglio – un' ora prima della morte – ma purtroppo non riuscì a raggiungermi. Le mie prime incisioni con lui erano state le ultime sei sinfonie di Mozart con i Filarmonici di Berlino, seguite da Tristan und Isolde con Helga Dernesch e Jon Vickers e Fidelio con gli stessi interpreti. A Berlino si incideva in quegli anni nella Jesus Christe Kirche, che era sulla strada per l'aeroporto di Tempelhof. Lavorarci era un'esperienza esasperante perché dovevamo interrompere le riprese ogni cinque minuti a causa degli aerei. In seguito abbiamo inciso sempre nella Philharmonie, mentre a Vienna, con i Wiener Philharmoniker, si utilizzava la Sofiensaal del Musikverein e a Parigi – per tre anni, dopo la morte di Charles Munch nel 1968, Karajan fu consigliere musicale dell' Orchestre de Paris – si incideva nella Salle Wagram.
Di quali incisioni con Karajan va più orgoglioso?
Un giorno che eravamo a tavola nel suo chalet di Anif in Austria, mi chiese lui stesso quale dei nostri dischi avrei portato su un' isola deserta. Risposi che avrei scelto le sinfonie di Brahms oppure qualcosa di Strauss, magari la Heldenleben. «Non ti piace allora il mio Beethoven?», mi rispose scherzosamente. Devo dire che ho un ricordo fantastico anche di molte altre incisioni straussiane – per esempio la Salome con la Behrens e i Vier Letze Lieder con la Janowitz – , dei Concerti di Beethoven con Alexis Weissenberg, del Don Carlo inciso nel 1978 con Carreras e la Freni e del Pelléas che incidemmo sempre nel 1978. Quest' ultima incisione fu curata al massimo: ventisette o ventotto sedute, con la presenza di Janine Reiss come coach musicale. Fu il risultato di una specie di baratto. Peter Andry della EMI voleva che si incidesse un' integrale delle sinfonie di Schubert, ma Karajan non era così entusiasta dell'idea: amava alcune delle sinfonie, ma non tutte. Alla fine lo convinse a inciderle in cambio della promessa di fare quel Pelléas, a cui lui teneva moltissimo. Per tornare al discorso di prima, Karajan mi chiese pure quale delle nostre incisioni mi piaceva meno di tutte. Non ebbi dubbi: Le Stagioni di Haydn incise a Berlino nel 1972. «Perché?». «Perché la Janowitz non stava bene e aveva problemi di intonazione, Walter Berry stava divorziando da Christa Ludwig ed era in cattiva forma anche lui. Il tenore era terribile: preferisco non nominarlo. E il coro – quello del Deutsche Oper Berlin – non ti piaceva». Lui mi guardò e disse: «Sono stupefatto. E' l' unico lavoro di Haydn che non mi piace per niente. Ma abbiamo fatto davvero quell'incisione?». « Sì, ed è il ricordo più infelice di tutto il nostro lavoro insieme. Te lo dissi allora. E ricordo bene che dicesti che non avresti più inciso un lavoro corale senza il Singverein di Vienna». In effetti lo impiegò sempre in seguito, tranne che nella Carmen, per la quale scelse il Coro dell'Opéra di Parigi.
Il legame di Karajan con Vienna, in effetti, fu molto forte.
Bisogna ricordare che era nato l' 8 aprile del 1908. Come tanti austriaci della sua generazione provava una grande nostalgia per l' Impero Asburgico. Per lui il Trattato di Versailles del 1919 fu una catastrofe totale che distrusse un impero che, per quanto complicato e diversificato geograficamente, permetteva tuttavia una convivenza armoniosa. E ancora oggi stiamo pagando le conseguenze di quella catastrofe: basti pensare alle turbolenze nel Kosovo. Devo dire che Karajan mi trasmise quest' amore per Vienna e questa nostalgia per il passato, e ogni volta che vado nella città austriaca – l' ultima volta fu nel mese di giugno per vedere un grandissimo Ferruccio Furlanetto nel Don Carlo – visito l' Hofburg ed entro anche nella Cripta dove sono sepolti gli imperatori.
Stephen Hastings ("Musica", n.189 – settembre 2007)